L’identità sul web: rischi e potenzialità
Agli inizi del web la norma era quella dell’anonimato. Nickname ideati ad arte per forum o i primi blog. La presenza in rete era legata a ciò che si voleva portare, far trasparire di noi e non sempre era legata a ciò che si era nella realtà di tutti i giorni offline.
Con l’avvento dei social invece il gap tra identità virtuale e identità reale si è sempre più assottigliato, anche per le regole di trasparenza adottate dai social.
Quindi perfetto, non c’è più differenza, siamo sempre noi, direte.
E invece no.
“L’utilizzo della rete e delle varie applicazioni è in grado di determinare un ampliamento ed una errata percezione dei confini del Sé. Presi nel vortice dei rapporti sociali, dividiamo disperatamente la nostra limitata attenzione, concedendo frammenti della nostra coscienza a ogni cosa o persona che richieda il nostro tempo. Nel farlo, rischiamo di perderci pian piano nella rete labirintica di connessioni mutevoli e temporanee in cui siamo sempre più integrati. Gergen scrive: “Questa frammentazione della percezione di sé corrisponde a una molteplicità di relazioni incoerenti e fra loro sconnesse. Queste relazioni ci spingono in una miriade di direzioni, invitandoci a interpretare una varietà di ruoli tale da far sfumare il concetto stesso di sé autentico, dotato di caratteristiche conoscibili. Il sé completamente saturato diventa un non sé.”[1]
Perché la nostra identità può assumere diverse declinazioni anche nel reale, pensiamo ai diversi ruoli che assumiamo nella vita. Al lavoro non siamo come in famiglia ad esempio. Siamo sempre noi, certo, perché il nucleo della nostra identità non cambia, ma cambiano i modi di presentarla.
E se questo accade nel reale, dove però la nostra persona è testimonianza della nostra unicità, accadrà anche nel virtuale, dove lo scollamento è più a rischio.
Sul web la maggior parte di noi si maschera mostrando solo quello che vuole mostrare di sé, e spesso sono le caratteristiche migliori. Ma c’è chi trova nel virtuale una possibilità in più: travisare sé stesso. E ciò accade non solo coi profili palesemente fake che nascondono del tutto il collegamento con il noi reale, ma anche, in modo più sottile, presentandoci con caratteristiche che non possediamo.
Facendo così possiamo fare dei danni ad altre persone che si affidano a ciò che mostriamo. Nasconde però, per noi stessi, rischi e potenzialità.
Il rischio è quello dello scollamento tra virtuale e reale, vivendo due identità parallele. Le potenzialità stanno nel poter sperimentare nel web parti di noi che non osiamo mostrare nel reale, testarle e acquisirne la padronanza per poterle portare nel reale. Parimenti è possibile scoprire parti nostre, competenze, capacità inesplorate nel reale e qui poi traghettate.
Come sempre quando si parla di virtuale non è possibile identificare bene e male, perché non sono categorie intrinseche del virtuale ma di come noi lo usiamo e lo tariamo sulla nostra individualità.
Un fattore non eludibile che però manterrà sempre il gap è l’assenza della fisicità, della comunicazione non verbale, che spesso ci fa percepire l’altro in modo distorto, lontano. E ci permettiamo cose, pensieri, modalità che nel vis à vis non faremmo perché le norme sociali introiettate ci limiterebbero.
A questo proposito,gli autori (Tosoni, 2004; Turkle, 1996) sottolineano il concetto di de-individuazione: il fatto che in rete esista l’anonimato o comunque la non-visibilità tra sé stessi e gli altri utenti permette di sentire in misura minore il peso delle norme sociali e del giudizio dell’altro. In tal modo, l’utente si sente maggiormente libero di potersi esprimere secondo i propri desideri e secondo le proprie tendenze, che in questo contesto non risentono del filtro della relazione vis-a-vis che ne potrebbe limitare la rappresentazione spontanea. Di conseguenza, l’identità nella rete può essere vista,secondo Tosoni (2004), come un foglio bianco, dove l’anonimato e la non visibilità consentono di staccarsi dal proprio corpo e dalla propria storia e permettono di scegliere il modo di presentarsi in base anche agli obiettivi che ci si pone nelmomento in cui si decide di accedere al portale. Per dirla come la Turkle (1996),diventa così possibile essere “ciò che si è e ciò che si vuole essere”[2]
Questo per un adulto è spesso, un meccanismo abbastanza gestibile e che non crea per i più grossi danni. Se rimane il gap tra le due declinazioni dell’identità, spesso non dà il via a scissioni patologiche e rimane una parte di sé ideale che sappiamo tale.
Ma con gli adolescenti il discorso è diverso. Nell’adolescenza l’identità personale non è strutturata come negli adulti ma è in via di definizione. E’ labile. E qui sì il rischio di perdersi è possibile.
Parlando con i ragazzi, negli incontri che ho fatto nelle scuole, emergeva in un primo tempo che per loro virtuale e reale non si differenziano. Ma analizzando il loro modo di stare sul web (spesso nei giochi di ruolo ma anche sui social) essi stessi hanno ammesso stupiti di come non sempre si declinano in modo similare al loro essere nella realtà.
I loro avatar sono spesso rappresentazioni ideali di sé, le possibilità immaginali e realizzative date dal mondo virtuale dà spazio a potenzialità e desideri di successo che nella vita di tutti i giorni, se non impossibili, richiedono molto più tempo per realizzarsi.
“Nei videogiochi puoi morire più volte!”, “Tutto è possibile”, “Puoi conquistare chi vuoi”, “Hai successo”. Queste alcune affermazioni che ho sentito da loro. Questo senso di onnipotenza, di potere, potrebbe essere un elemento di rischio su una identità in evoluzione. Allo stesso modo, uno può avere molto seguito sui social e non essere così “seguito” nel reale. Perché il comportamento online influenza comunque quello offline, nel bene o nel male.[3]
Questo non vuol dire impedire ai ragazzi di giocare o stare sui social ovviamente, ma non smettere di criticizzare il loro uso del web. Perché se da un lato è vero che ci sono nati, lo maneggiano meglio di noi, spesso sono dei pesci che sanno nuotare ma non sanno che l’elemento in cui nuotano è l’acqua, finché qualcuno non glielo fa notare.
Spesso però i genitori non sono abbastanza educati al digitale per poter cogliere un pericolo. Magari non farebbero uscire i figli di notte con degli sconosciuti, ma non hanno idea di cosa e chi incontrano sul web.
Si deve instaurare una collaborazione tra competenze: loro l’esperienza nativa e l’adulto lo sguardo esterno. Entrambi possono insegnare, entrambi devono ascoltare, entrambi devono conoscere e imparare.
Per non perdersi.
[1] Marcucci M., Lavenia G. “Realtà virtuali e identità soggettiva – Nuovi mondi e psicopatologia del Sé”
[2] Bedini, E., “Le identità virtuali. Quello che la sistemica dice e quello che non dice”
[3] Confalonieri, L. “Identità virtuali influenzano il nostro comportamento nel mondo reale”, State of Mind, 2014
[…] lascio quindi alla lettura dell’articolo che ho scritto per Il Lato Oscuro del Web e al podcast della […]